La Via della Spina, paesaggio e ambiente

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Autori: Tiziana Ravagli, Giampaolo Filippucci, Alvaro Paggi

IL PAESAGGIO: INTRODUZIONE

Capire il paesaggio significa penetrare nell’intima sostanza dei luoghi per come questi sono percepiti dalle popolazioni, ma significa anche affrontarne il carattere che ineludibilmente gli deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni [Convenzione europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000].
Seguendo il filo conduttore di questi principi, la legge italiana ci ricorda che la ‘tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili’.
Parlare di paesaggio significa allora parlare di ambiente naturale ma anche dell’uomo e delle strette relazioni che rendono l’uno vincolato (e vincolante) all’altro.
Questo vale sempre, ma è vero soprattutto in un territorio antropizzato da millenni qual è quello umbro, e vale in special modo se quel territorio è strettamente connesso non solo all’uomo abitante ma anche all’uomo viaggiatore: questo è il nostro caso.

UNO SGUARDO AL PAESAGGIO FISICO: APPUNTI DI GEOLOGIA E GEOMORFOLOGIA

L’ambiente che vogliamo iniziare a conoscere è definito da una via d’acqua torrentizia: il torrente Spina.

Nel sommarsi dei millenni la morfologia della valle, incisa tra i massicci calcarei che la sovrastano, ha definito e connotato un collegamento transappenninico di primaria importanza: la Via della Spina, via di transumanza e di commerci che collegava Spoleto attraverso il valico di Colfiorito (m 821) con l’alta Umbria e Camerino e ricalcava un antichissimo percorso che metteva in comunicazione il territorio dei Piceni (Marche) con l’antico Latium.

Parlare di paesaggio per la Valle della Spina non può prescindere da tutto questo.

Come suggeriscono i docenti di geomorfologia e geografia fisica ai propri allievi, e noi siamo tra questi, prima di accingerci a risalire il corso d’acqua e ad avventurarci nel suo territorio seguendo l’antichissima Via della Spina, iniziamo la nostra conoscenza esaminando la cartografia della zona. Subito dopo, con le carte pronte nel tascapane o nello zaino, intraprenderemo il nostro cammino alla scoperta di questi luoghi.
A tale fine è di particolare utilità e interesse la classica tavoletta I.G.M. in scala 1:25000. In realtà  ne occorrono almeno due: la tavoletta I S.E. ‘Sellano’ e la I S.O. ‘Trevi’, entrambe appartenenti al foglio 131 ‘Foligno’ della Carta d’Italia.
Già a una prima occhiata, in quest’area notiamo la presenza di due linee ideali che si sviluppano con direzione NNE – SSO, in pratica parallele, solcate da vie d’acqua per lo più a carattere torrentizio. Le separa un sistema di modesti rilievi montuosi che raggiungono la massima elevazione con il monte Carpegna, che sfiora la quota di m 1354 s.l.m.: da settentrione a meridione troviamo i monti Siliolo (m 1071), Cammoro (m 1273), il già ricordato Carpegna con il Torrone (m 1131) e il Vergozze (m 1331) con il Colle del Prete (m 1157).
In corrispondenza della linea ideale che unisce il monte Serano al Carpegna, quasi perpendicolarmente alle descritte vie d’acqua, si definisce uno spartiacque trasversale: da questo allineamento, infatti, il torrente Spina e il fosso di Pettino scendono verso la Valle Umbra, mentre dalla parte opposta defluiscono i corsi d’acqua corrispondenti, cioè il fosso di Piè di Cammoro e il fosso Fauvella-il Rio che, insieme ad altri corsi d’acqua, formano l’alto bacino imbrifero del fiume Menotre.

Il fiume Menotre è Sito d’Interesse Comunitario: Codice Rete Natura 2000 – IT5210041. La Valle della Spina è praticamente circondata da Siti d’Interesse Comunitario: Valle di Pettino (Comuni di Campello sul Clitunno, Trevi e Spoleto), interessa i due versanti della valle di Pettino e il medio versante della Montagna di Campello fin sopra la frazione di Pigge nel comune di Trevi – IT5210050; Fosso di Camposolo (Comuni di Campello sul Clitunno, Spoleto, Vallo di Nera), che lambisce la Valle della Spina, circa tra Pianciano Basso e Passo d’Acera, ubicato a oriente di Campello sul Clitunno, interessa quasi interamente il bacino del fosso di Camposolo, fino alla cima del monte Felcito e del monte Pianciano – IT5210057; Monti Serano-Brunette (sommità) (Comuni di Campello sul Clitunno, Sellano e Trevi), comprende i monti Pradafitta, Serano, Brunette, Cammoro, Carpegna e Vergozze – IT5210047.

I monti di questa parte dell’Umbria hanno cime generalmente arrotondate, ma i pendii che delimitano fossi e torrenti sono spesso tutt’altro che dolci e riposanti; a tratti, infatti, sulle strette pianure alluvionali, le pareti rocciose sono erte e incombenti, con rocce affioranti fratturate da antichi movimenti orogenetici, da pieghe, sovrascorrimenti e faglie, e dalla dirompente complicità di numerosissimi eventi tellurici, anche recenti.
In pratica, dal susseguirsi di tutti quei processi geologici che danno luogo alla formazione delle catene montuose e, in prospettiva, se vogliamo, anche al loro disfacimento.
In certe zone, sulla via gravano masse di detriti grigiastri: è il detrito di falda, un deposito che si è sedimentato lungo i versanti e si è originato dalla disgregazione della roccia calcarea ricca di formazioni gelive, quali la Scaglia Rossa e la Maiolica. Per inciso, annotiamo che sono dette gelive le rocce che hanno una certa predisposizione a spaccarsi e a sgretolarsi a seguito dell’azione meccanica indotta dal ciclo gelo-disgelo dell’acqua.
Queste pendici sembrano rette da un equilibrio che al viandante può sapere di prodigio del Creato. Nella realtà si tratta della naturale propensione di tutti i sistemi, anche dei più complessi, a raggiungere un proprio equilibrio, spesso più dinamico che statico. Frequentemente è l’uomo, con le sue opere, a rompere questi fragili equilibri e allora ecco manifestarsi eventi calamitosi come frane e alluvioni e la necessità di contenere la natura, di frenare i pendii con le reti, di puntellare e sorreggere i versanti rocciosi con muri armati e muretti di sostegno o gabbioni, di imbrigliare il deflusso stagionalmente impetuoso dei torrenti per salvaguardare le aree urbanizzate… Ma come ben sappiamo, non sempre i risultati ottenuti sono quelli attesi.
I lavori realizzati per la costruzione della strada provinciale, che ha sostituito l’antichissima Via della Spina, hanno reso meno diretto e più agevole superare i rilievi montuosi con i moderni mezzi di locomozione e al contempo, con il taglio dei versanti, hanno contribuito a evidenziare la tormentata storia geologica di questi luoghi, che è poi la storia dei nostri Appennini e della nostra regione.
Seguendo il corso d’acqua osserviamo le rocce che affiorano in quest’area: si tratta, prevalentemente, delle formazioni della Serie stratigrafica Umbro-Marchigiana comprese tra la Maiolica e la Scaglia Rossa, depositi di mare sedimentatisi tra il tardo Giurassico (Titoniano) e l’Eocene medio, e dunque, approssimativamente, tra 150 e 40 milioni di anni or sono. Per comprendere meglio la scala temporale alla quale ci stiamo riferendo, ricordiamo che l’estinzione dei dinosauri, che ha creato le condizioni per una rapida evoluzione e diversificazione dei mammiferi, è avvenuta alla fine del Cretaceo, circa 65 milioni di anni fa, la comparsa dell’uomo così detto moderno risale a circa 200-250 mila anni or sono, mentre l’Homo sapiens ha colonizzato l’Eurasia e l’Oceania circa 50 mila anni fa.
Continuando il nostro confronto tra carte e territorio, annotiamo ancora che Il torrente Spina incrocia la pianura e la via Flaminia all’altezza del castello di San Giacomo di Spoleto: qui disegna un magnifico conoide alluvionale che si apre a ventaglio sulla Valle Umbra meridionale.

In geografia fisica il termine conoide alluvionale, o conoide di deiezione, è usato per indicare i depositi alluvionali dalla forma a ventaglio (a cono) che si formano tipicamente quando un corso d’acqua giunge in pianura, dove la corrente fluviale perde la sua energia per la brusca diminuzione della pendenza e, al contempo, può espandersi con rapidità perché non è più confinata lateralmente da stretti versanti montuosi.

Risalendo verso la montagna del folignate la valle tende naturalmente a restringersi e la rasserenante ampiezza del paesaggio collinare e vallivo, con i seminativi prevalenti sul fondovalle e gli uliveti sulle chine, è sostituita progressivamente dall’aspro articolarsi delle pareti rocciose, dove il bosco prevalentemente di latifoglie diviene l’elemento vegetazionale dominante.

Questo induce a cambiare la nostra prospettiva di osservazione: non più soltanto rocce e strutture geologiche, ma anche vegetazione nell’accezione più ampia e nel rapporto più diretto tra territorio, paesaggio e uomo abitante.

IL PAESAGGIO AGRARIO E L’AMBIENTE BOSCHIVO: IL 'PECORINO', IL TARTUFO, LA FLORA

Sui pendii di bassa quota la sostituzione della copertura boschiva originaria con gli oliveti è opera storica dell’uomo-abitante, che pur di favorire e mantenere l’insediamento di questa coltura anche in un ambiente fisico difficile e talvolta al limite termico per la vita stessa dell’olivo, si è fatto artefice di una delle opere di sistemazione idraulico-agraria più difficili, imponenti e mirabili della storia dell’agricoltura mediterranea.
I terrazzamenti con i muretti di pietra realizzati a secco sono il risultato di un immane lavoro che è proseguito per secoli e che oggi è ancora possibile ammirare per un breve tratto anche lungo la Via della Spina.
Il grande valore di tali opere, che sono riuscite a conciliare l’interesse agricolo e le necessità della popolazione con l’esigenza di preservare il territorio dai dissesti idrogeologici, era ben chiaro allo Stato Pontificio che volle disciplinare con leggi severe ogni intervento di sostituzione del bosco con gli oliveti e permise tale trasformazione esclusivamente con tale finalità.
La fortuna dell’olivicoltura si ebbe nel XIX secolo proprio grazie all’intervento dello stato papale, che decise di concedere premi in denaro a chiunque piantasse e curasse a regola d’arte le piante d’olivo.
Per tale motivo, grazie anche alla facilità con la quale allora si poteva reperire la manodopera, nella Valle Umbra in un solo decennio furono messi a dimora circa 40.000 olivi secondo sesti d’impianto a volte regolari, altre volte ricalcanti e assecondanti l’orografia dei versanti.
Con lo sviluppo dell’olivicoltura si ottenne, dunque, un sufficiente contrasto al dissesto idrogeologico che poteva essere determinato dal disboscamento e al contempo si garantì alle popolazioni un riscontro economico, forse modesto, ma comunque importante e, soprattutto, duraturo nel tempo.
Nacque così la tradizione olivicola dell’Umbria, una tradizione che ha permesso di ottenere un prodotto prezioso, molto ricercato dalla stessa corte papale che spesso approfittò del proprio potere temporale per imporre un prezzo dell’olio invero poco conveniente per gli olivicoltori.
A proposito dell’olio extravergine d’oliva, ricordiamo che nel 1997 la Regione Umbria ha raggiunto il prestigioso traguardo della DOP (Denominazione d’Origine Protetta) ‘Umbria’, divisa in cinque sottozone, individuate sulla base delle caratteristiche organolettiche, chimico-fisiche, pedoclimatiche e varietali: i Colli di Assisi-Spoleto, i Colli del Trasimeno, i Colli Orvietani, i Colli Martani e i Colli Amerini.
A ben vedere, lungo la Valle della Spina ben poca è la superficie destinata all’agricoltura e con tutta probabilità anch’essa fu strappata al bosco in tempi lontani. Le coltivazioni erano e sono ancora oggi quelle più tradizionali. Oltre all’olivo di cui abbiamo già detto, i piccoli campi sono avvicendati con foraggi e cereali la cui produzione è spesso destinata agli allevamenti familiari: di ovini soprattutto, ma anche di bovini e di animali da cortile. Qualche appezzamento di terreno è stato destinato alla realizzazione di tartufaie coltivate, mettendo a dimora piantine prodotte in vivaio e micorizzate con questo fungo ipogeo. Non lontano dalle abitazioni, ma ormai al limite climatico per la buona coltivazione della specie, si trovano antiche viti maritate ad alberi tutori, destinate un tempo, e forse ancora oggi, a produrre un po’ di vino per l’autoconsumo. In un ambiente pur difficile per la vite, si scopre che in passato vi era coltivato un vitigno del tutto particolare, un ecotipo a maturazione precoce, sicuramente ben adattato a vivere in siti collinari elevati e freschi, non molto produttivo ma dal quale si ottiene un vino gustoso da consumare giovane: il ‘Pecorino’.
Nel Diciannovesimo secolo questo vitigno sembra fosse diffuso nelle aree più fresche di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo; oggi è tornato a diffondersi sui Colli Ascolani producendo un vino di qualità che nel 2001 ha ottenuto la DOC con il nome di Pecorino di Offida. Da un po’ di tempo, sta suscitando nuovo interesse anche da parte di enologi, di alcuni vinificatori locali e, soprattutto, degli abitanti della Valle della Spina per questa presenza lontana nel tempo ma radicata nella tradizione e nella cultura locale. Certo è che il nome stesso di questo vitigno rimanda alla transumanza delle greggi, avvalorando per questa pratica l’importanza che ebbe in passato la Via della Spina.
In questo territorio, come nell’85% circa della superficie regionale, i monti sono coperti da boschi governati a ceduo matricinato. Le specie prevalenti sono le querce caducifoglie e precisamente, scendendo d’altitudine, il cerro e la roverella. Nelle esposizioni più fresche a queste specie quercine si associano il carpino nero, l’orniello e, più limitatamente, l’acero opalo, mentre nelle esposizioni più soleggiate troviamo il pino d’Aleppo. A quote elevate e soltanto in alcune stazioni caratterizzate da un microclima più fresco è presente qualche esemplare di faggio, una specie arborea che diventa, invece, abbastanza diffusa sul versante orientale del complesso orografico Serano-Brunette, nel territorio di Pettino, e anche sul versante occidentale dello stesso sistema montuoso, nel territorio di Coste di Trevi.
Tra questi boschi misti di latifoglie non mancano imboschimenti di pino nero, specie alloctona molto rustica e resistente, importata nella zona appenninica qualche decennio fa per essere utilizzata in impianti artificiali realizzati con lo scopo di migliorare la fertilità di terreni molto poveri per prepararli alla successiva colonizzazione da parte delle specie forestali autoctone più esigenti in fatto di qualità del terreno.
Annotiamo, per inciso, che a meridione del Piave e del Tagliamento, le pinete naturali di pino nero sono segnalate solo in Abruzzo e in Calabria. L’evoluzione di questi imboschimenti di conifere, prima verso il bosco misto, quindi verso quello di sole latifoglie, doveva essere agevolata da successivi tagli colturali di sfollo e di diradamento, che spesso sono stati trascurati anche per mancanza di adeguate risorse economiche. La trasformazione sta quindi avvenendo naturalmente, come è ben evidente all’occhio esperto, ma per completarsi richiederà tempi molto più lunghi del previsto.  
A quote più basse è presente anche il leccio, quercia sempreverde e quindi inconfondibile nel nostro ambiente naturale, che diventa abbondante sul versante del fosso di Pettino, superato il borgo di Silvignano, dove lo troviamo anche in copiosa consociazione con il pino d’Aleppo.
Questi boschi, come abbiamo già indicato, sono governati a ceduo, sono quindi tagliati periodicamente, rispettando dei turni stabiliti per legge che dipendono dalla specie arborea prevalente nel bosco stesso. Parlando di ceduo, ci riferiamo, in effetti, al ceduo matricinato nel quale, all’atto dell’utilizzazione, è preservato dal taglio un certo numero di individui di differente età e appartenenti alle diverse specie presenti. Tali individui hanno il compito di produrre il seme e di favorire la nascita di nuove piantine: queste con il tempo sostituiranno le ceppaie che muoiono per evoluzione naturale e assicureranno il ringiovanimento e il mantenimento del bosco. Il governo del bosco ceduo, come nel caso di ogni interazione dell’uomo con l’ambiente che lo circonda, ha conseguenze positive e negative. Tra le prime ricordiamo la facilità di rinnovazione del bosco, certamente superiore a quella per seme che è difficile e lunga, specialmente per alcune specie arboree, e la rapidità con cui si assicura la nuova copertura del suolo dopo il taglio. Altri elementi positivi sono: la resistenza attiva agli incendi boschivi, dovuta al continuo ringiovanimento delle ceppaie e quindi al lungo mantenimento della potenzialità pollonifera che torna utile dopo il passaggio del fuoco, il mantenimento di una ricca biodiversità nel sottobosco, che ‘riscoppia’ letteralmente dopo ogni turno di taglio. È evidente, infine, l’importanza di garantire un reddito alle popolazioni montane che deriva dalla produzione e conseguente vendita della legna (nella sua qualità di materiale combustibile rinnovabile).
Tra gli aspetti negativi abbiamo il forte impatto visivo e il frequente disturbo alla fauna selvatica e alla flora per l’inevitabile distruzione di micro-habitat. Dal punto di vista paesaggistico e della conseguente fruibilità turistico-ricreativa dei luoghi, annotiamo che nei cedui è quasi impossibile trovare esemplari arborei di grandi dimensioni, i così detti ‘monumenti verdi’, e che al loro interno i sentieri spesso vi si confondono. Le ampie superfici tagliate fanno, poi, perdere ai quei luoghi, per un periodo anche piuttosto lungo, quell’essenza intima e profonda che gli è propria, e che è stata così ben cantata dalla poesia silvo-pastorale. L’impatto negativo dell’intervento di taglio ceduo, come in qualsiasi altro intervento selvicolturale, potrebbe essere, comunque, mitigato, se gli interventi fossero più mirati e attenti alle caratteristiche e alle potenzialità fisiche, ecologiche e paesaggistiche dei diversi luoghi d’intervento e anche se fossero messe in atto, quando possibile, differenti tecniche di ceduazione come, ad esempio, quella che prevede la matricinatura a gruppi.
Di particolare interesse, specie ai margini della strada provinciale, segnaliamo la presenza di esemplari di ginepro spinoso o ginepro rosso, molto spesso così sviluppati da apparire come veri alberelli. Per gli appassionati di botanica, ricordiamo che i ginepri appartengono alla famiglia delle Cupressacee e sono arbusti tipici dei terreni calcarei dove, generalmente, si accompagnano a grandi piante di ginestra, specie della quale è quasi superfluo ricordare la bellezza della fioritura primaverile, quando si riempie di fiori bilabiati, di colore giallo intenso e notevolmente profumati.
Parlando di boschi… nel territorio della Valle della Spina non possiamo non ricordare il tartufo, il prezioso ‘oro nero’ che ha dato grande notorietà al piccolo borgo di Spina Nuova con la sua conosciutissima sagra estiva.
Se il tartufo nero di Norcia e di Spoleto può essere raccolto nei boschi di più alta quota, Spina Nuova ha, invero, legato il suo nome al tartufo nero estivo detto anche scorzone abbondante nei boschi e nelle radure a quote più basse. Il suo profumo, più delicato e ‘fungino’, e il suo sapore che ricorda vagamente quello dei funghi porcini, in agosto, in occasione della sagra locale, attrae frotte di estimatori della buona tavola. Non di meno, durante tutto l’anno, l’’oro nero’ è uno dei principali elementi di richiamo per i numerosi avventori di ristoranti e agriturismi della Valle e di tutta l’area circostante.
Passeggiando al limitare dei boschi alla fine dell’inverno si rinvengono abbondanti fioriture di pendule corolle verdastre, sfumate di rosso scuro in punta: è l’elleboro fetido. Quando è ancora il gelo a farla da padrone, l’elleboro mantiene i boccioli stretti, quasi a difenderli dal rigore della stagione più buia, ma al primo tepore si apre e il colore verde chiaro dei fiori spicca tra il verde scuro del fogliame basale, la cui nascita risale all’anno precedente.
A primavera seguirà la fioritura di primule e ciclamini, di violette e anemoni, di epatiche, scille, crochi, colchici e, con l’inoltrarsi della stagione primaverile, anche di più rare orchidee.

GLI INCONTRI CHE PIÙ CI MERAVIGLIANO: LA FAUNA

Quando intraprendiamo un nuovo cammino naturalistico gli incontri che più ci meravigliano e certamente catturano il nostro interesse sono quelli con gli animali. Se avremo la capacità di osservare con attenzione l’ambiente che ci circonda, potremo notare i segni della loro presenza e compiere scoperte affascinanti.

Nel nostro territorio, così fortemente antropizzato, incontrare la fauna selvatica non è sicuramente facile: in questo itinerario di conoscenza ci sarà, quindi, di grande aiuto il ritrovamento di impronte, peli, escrementi, penne, residui di cibo ecc.
La presenza dell’istrice ci è segnalata dagli aculei più o meno lunghi e robusti, ornati da anelli neri e bianchi, che spesso troviamo abbandonati sul terreno durante le nostre escursioni in zona. Contrariamente a quanto riferito popolarmente, l’istrice non lancia gli aculei appuntiti per difesa, ma li può perdere naturalmente, ad esempio in corrispondenza di qualche stretto passaggio strofinandoli contro radici o sottobosco, o durante le lotte per la sopravvivenza. È vero, invece, che se percepisce un pericolo gira le spalle all’aggressore, mostrando i suoi ‘aghi’ appuntiti con lo scopo di intimidirlo: si scuote minaccioso ed emette un suono particolare dovuto agli aculei cavi della coda che, urtando gli uni contro gli altri, funzionano come campanelli. Un altro segno inconfondibile della presenza dell’istrice è rappresentato dai suoi escrementi, un insieme di piccole masse distinte tra loro, della grandezza media di una ghianda. Si ritrovano raggruppate, quasi in fila, in numero di sette-dieci; quando sono fresche, sono unite tra loro, ad esempio da fili d’erba, mentre se sono vecchie e disidratate, si staccano mantenendo, tuttavia, la caratteristica terminazione a punta.
Le impronte sono elementi molto importanti per segnalarci la presenza di questa o di quella specie animale. Le zampe anteriori dell’istrice lasciano sul terreno il segno di sole quattro dita, poiché in questo animale il pollice è atrofizzato. Il tasso, pure presente in questo territorio, ha un’impronta non solo più grande, ma anche con segni ben evidenti delle cinque dita e delle relative unghie, che sono forti e lunghe. Il dito interno, corrispondente al nostro pollice, è sempre più corto, mentre il terzo è più lungo. Ricordiamo che il tasso è onnivoro e ha abitudini notturne. Purtroppo, per i raccoglitori di tartufi, anche gli istrici e i tassi apprezzano i gustosi tuberi.  
Sicuramente ingombrante, anche a tale proposito, è la presenza del cinghiale che è considerato al contempo una preda ambita dai cacciatori per la sua carne ma anche un vero problema per gli agricoltori e in particolare per tartufai e tartuficoltori. Il cinghiale, tra i mammiferi, è una delle specie a più ampia diffusione e non è più possibile tracciarne un profilo tassonomico preciso, perché le varie popolazioni locali hanno subito nel tempo l’incrocio con esemplari alloctoni e/o con maiali rinselvatichiti.
Tanti altri animali frequentano questi luoghi. La volpe, specie tra le più adattabili, può prosperare negli habitat più svariati, dalla montagna alle campagne coltivate. Animale notturno, la volpe se indisturbata può essere attiva anche di giorno. Si ripara sotto i cespugli, nelle tane scavate da lei stessa o abbandonate da altre specie come l’istrice e il tasso. L’impronta della volpe presenta ben visibili un cuscinetto plantare e quattro dita. Le sue tracce sono simili a quelle di un cane, ma più appuntite, con le zampe anteriori che lasciano impronte un poco più grandi di quelle posteriori. Nel movimento, le tracce della volpe sono lineari mentre l’andatura del cane è più disordinata. Nella stagione degli amori se ne possono udire i latrati, simili a quelli dei cani ma più rochi. Sicuramente, qualche volpe avrà fatto visita anche ai pollai che le ormai rare, ma brave, massaie di Spina sanno ancora organizzare e gestire come avveniva in tempi lontani.
Tra i mammiferi presenti in quest’area possiamo annoverare anche il lupo, diffuso in tutto l’Appennino centrale, il capriolo, ricomparso solo di recente, e, a detta degli esperti, il gatto selvatico.
Interessante è pure la presenza dei pipistrelli, chirotteri in genere poco amati ma preziosissimi per la mole di insetti, zanzare comprese, che sono in grado di mangiare durante ogni notte di caccia.
Tra gli anfibi citiamo il tritone, che abbiamo rinvenuto in alcune pozze d’acqua utilizzate per il bestiame al pascolo (le ‘trosce’, in dialetto), mentre tra i rettili segnaliamo la vipera comune e alcuni colubridi, come il biacco e il saettone.
Moltissime sono le specie di uccelli che popolano i nostri cieli. Ricordiamo la coturnice, il picchio, il fringuello, il codirossone, l’upupa, il passero, il pettirosso, l’usignolo, la cinciarella, il gufo e molti altri ancora. Nei nostri vagabondaggi da naturalisti, la presenza della ghiandaia ci è testimoniata dal ritrovamento delle penne, inconfondibili per la loro colorazione: a barre trasversali azzurro, cobalto e nere, quelle delle copritrici (delle ali); nere, bianche e azzurre, quelle delle remiganti.
All’imbrunire e di nuovo all’alba potremo udire il canto inconfondibile della civetta.
Questo uccello trova ricovero nelle vecchie costruzioni rurali, come rovine di abitazioni o fienili, con il tetto ricoperto di coppi; non di rado si stabilisce anche nei centri delle città, ove si rifugia in torri e soffitte. Contrariamente a quanto spesso si crede, non ama i boschi ma predilige gli spazi aperti con vegetazione rada. Nidifica da marzo a maggio nelle cavità di alberi, sottotetti o altri edifici. Caccia dal crepuscolo all’alba, piombando sulla preda prescelta quasi ad ali chiuse e afferrandola con gli artigli. Una volta catturatala, si sposta nuovamente sul suo posatoio dove consuma il pasto: in genere, piccoli roditori, lucertole, grossi insetti, lombrichi e uccelli. Sotto il posatoio sarà possibile trovare le così dette borre, rigurgito di cibo non digerito. Tutti i rapaci, notturni e diurni, ma anche altri uccelli, rigettano le borre; la maggior parte delle prede è costituita, infatti, da elementi che l’apparato digerente di questi uccelli non è in grado di assimilare: pelliccia, e quindi peli, ossa, piume e penne, esoscheletri di insetti, scaglie di rettili, frammenti vegetali e altro ancora, in virtù della dieta seguita, si appallottolano nello stomaco del predatore che, circa ogni dodici ore, li espelle dalla bocca con un rigurgito. Passando sotto i posatoi, ma anche perlustrando i luoghi dove questi uccelli si rifugiano, sarà, quindi, possibile rinvenire questi residui indigeriti; esaminandoli accuratamente potremo sapere di cosa si sono nutriti i rapaci e quanto sia stato abbondante il loro pasto. L’analisi delle borre fornisce, quindi, informazioni importanti per interpretare l’equilibrio presente all’interno della catena alimentare nelle aree di nostro interesse.

Nota bene: quando si manipola una borra  è buona norma usare guanti e mascherina.


Durante le passeggiate lungo la Via della Spina, potremo essere accompagnati dal volo di rapaci diurni, specialmente gheppi e poiane. Per riconoscerli, ricordiamo che la poiana, in volo, ha ali larghe e sfrangiate, coda larga e arrotondata; i gheppi, invece, più piccoli, delle dimensioni di un grande piccione, hanno ali lunghe e appuntite e coda piuttosto lunga. Il gheppio, in particolare, caccia fermandosi in aria a 10/15 metri d’altezza, battendo le ali in maniera rapida e continua, assumendo la posizione nota come ‘spirito santo’; avvistata la preda, si getta con rapidità sulla stessa per catturarla. In genere si tratta di piccoli roditori, lucertole e insetti. A volte si colloca in posizione dominante, come sui fili della luce o sul ramo secco di un vecchio albero, e scruta il terreno, pronto a scattare alle prime avvisaglie di una caccia interessante.
Il vastissimo mondo degli invertebrati meriterebbe ben più di un accenno.
Tra tutte le presenze ricordiamo un ottimo indicatore ecologico: la farfalla del corbezzolo, che testimonia il buono stato dell’ambiente in cui vive, come i nostri boschi al limitare tra la collina e la montagna.
In estate sarà facile osservare due piccole farfalle dall’abito appariscente e colorato: si tratta del pretino  e del cardinale, nomi comuni date a due zigenidi per i toni predominanti della loro livrea. La colorata vistosità di queste farfalline è un preciso messaggio per i predatori: ‘…Attenzione siamo velenose!’.
Nel cardinale, in particolare, il veleno è un composto di cianuro: così, basta un piccolo assaggio perché un uccello lo ricordi con dolore per tutta la vita. L’idea funziona talmente bene che altri insetti hanno ‘adottato’ i colori di questa zigena, così gli uccelli li evitano accuratamente, anche se le loro carni non sono per niente dannose.
In certe ore del giorno, i maschi della farfalla macaone, così come quelli del podalirio, si radunano sulle cime delle colline, mostrando un comportamento assai simile a quello di altre specie tropicali appartenenti alla medesima famiglia: volano sfruttando le tepide correnti ascensionali e restano, in alto, in attesa delle femmine.
L’adattamento agli ambienti più vari fa del macaone la specie più conosciuta della famiglia dei Papilionidi. Il suo bruco si nutre prevalentemente di ombrellifere, come finocchio, angelica e carota selvatica, specie molto comuni nelle nostre campagne.
Il podalirio appartiene alla stessa famiglia, ma è meno diffuso soprattutto perché predilige l’ambiente delle siepi, che ha subito una notevole riduzione negli ultimi decenni, e i frutteti, che troppo spesso sono luoghi poco ospitali perché avvelenati dai pesticidi. Il podalirio in volo, quando è più difficile coglierne i caratteri morfologici che lo contraddistinguono, si riconosce dal macaone per il colore più chiaro, quasi biancastro, delle ali.
Negli ultimi decenni il numero delle farfalle si è notevolmente ridotto in tutto il mondo e diverse specie sono oggi a rischio di estinzione: le farfalle vanno, invece, tutelate mantenendo la più ampia variabilità degli habitat naturali, perché la loro presenza è un chiaro indice di salubrità del territorio in cui viviamo. Favorire la diffusione di questi splendidi insetti significa, allora, preservare l’ambiente e con esso il nostro stesso futuro.

Così, rincorrendo il filo di queste rivelazioni, ci siamo immersi in un ambiente antropizzato da millenni ma ancora con il fascino originale delle aree naturali incontaminate, e abbiamo iniziato a scoprire l’antica Via della Spina…

Note bibliografiche

Questo articolo è un contributo pubblicato nel seguente volume:

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