La «matonnuccia» o «pindurella» nel nostro paese veniva costruita sempre in prossimità di un bivio o di un incrocio fra più strade, perché considerato un tempo dalla superstizione popolare luogo di «paure» e quindi popolato di notte da streghe, demoni e spettri di ogni tipo e sembianza.
Nicchie affrescate da anonimi pittori popolari, manufatti in ceramica, croci di legno o semplici stampe a soggetto religioso trovavano posto sulle facciate delle case, da quelle dei «signori» a quelle più umili, rivolte sempre sulla via maestra, a protezione dei viandanti ma anche degli abitanti della casa.
Piccole costruzioni in muratura che ospitavano le immagini da venerare o semplici croci di legno e ferro erano frequenti anche in luoghi isolati e disabitati, lungo i sentieri dei boschi, fra i terrazzamenti degli uliveti o in mezzo ai campi, a protezione delle messi e stazione di preghiera in occasione delle processioni per le «rocazioni» di primavera.
Ad ogni pinturella, in passato la profonda fede popolare associava un potere taumaturgico con l’immagine del santo erogatrice di grazie e favori.
Nei piccoli altarini delle edicole o ai loro piedi venivano posti lumi accesi e fiori di campo, in un barattolo molti viandanti deponevano delle monete per l’acquisto dei lumi.
A Campello, i più anziani associano spesso nei loro racconti aneddoti e fatti legati ad ogni edicola di strada; di solito sono storie legate alle «paure» o a fatti di sangue, a personaggi vissuti nel passato, a filastrocche irriverenti o a vere e proprie odi al santo venerato nell’edicola.
Visto che il racconto orale fa parte a tutti gli effetti della nostra cultura e delle nostre radici e che rischia più di ogni altra cosa di perdersi, riporteremo alcuni testi che riguardano direttamene fatti accaduti e vicende di alcune «pinture» del nostro territorio.
La pintura delle Cozze. La vicenda ha per protagonisti Filiciolu e u poru Chiccu, due poveri braccianti nemici fra loro, che per sfottersi lasciavano i loro messaggi, come in una sorta di disputa teologica, vergata con il carbone sulle pareti della pinturella della strada che dal castello di Campello Alto portava alle Cozze.
Filiciolu:
… CHI CRETE IN DIO NON CRETE ALLA MATONNA, COMMO CHI CRETE AL BABBO E NO’ ALLA MAMMA…
u poru Chiccu:
O INDEGNA MANO CHE TU SCRIVESTI, DOPPO CHE MALE ESEMBIO AL MONDO DASTI…
CREDI COSI’ POCO L’ARIAQUISTI GRAZIE DAL CIELO, DOPO CHE L’IGNORASTI…
Filiciolu:
… PERSEGUITOR DI CRISTO STATTE QUIETO NON LA SPRECATE VOI LA VOCE E IL FIATO LI CHIODI PER LA CROCE FABBRICASTE E LA MALIZIA L’HAI INVENTATA TECO…
Tra l’Acera e Migghiana. Il «canto alla pinturella» dell’Acera fu composta da Mecu l’arrotino, vecchio socialista ma religiosissimo, tanto da avere una vera e propria venerazione per la modesta immaginetta della Madonna della Pinturella dell’Acera.
… TRA L’ACERA E MIGGHIANA
CI STA’ NA PINTURELLA
LA PIÙ MIGLIORE E’ QUELLA
PIÙ AVANTI NON SE VA’…
TRA L’ACERA E MIGGHIANA
CI STA NA PINDURELLA
DO’ LA BICICLETTA MIA
DI FERRO CARICATA
IN QUEL POSTO SI ERA FERMATA
TRA L’ACERA E MIGGHIANA
CI STA’ N’IMMAGINETTA
IN QUELLA VALLE PREDILETTA
IO MI FERMAI A PREGA’…
Le «rocazioni». Un tempo la profonda fede popolare spingeva i fedeli a partecipare attivamente a tutte le numerose funzioni religiose che si svolgevano nelle varie ricorrenze dell’anno. Nella settimana santa di Pasqua si svolgevano le rogazioni, dopo la messa la processione con il Cristo si muoveva lentamente nei sentieri in mezzo ai campi di stazione in stazione, invocando sui raccolti la protezione di Dio. Il prete cantando pronunciava in latino la frase «benedici le nostre campagne» ed il popolo in coro rispondeva in un latino molto personalizzato «terocame saudì no» («Te rogamus esaudi nos»). Raccontano i più anziani che al coro dei fedeli faceva da eco Antonio de Meu che invece cantava «le Miluccia rosce ’ngò».
Legate al ricordo delle rogazioni, gli anziani ricordano anche due brevi storielle, bonariamente scherzose e irriverenti.
La storiella del prete che ruba il tacchino. Durante la processione per le rogazioni, il prete incontrando in mezzo al sentiero un grasso tacchino, con uno scatto fulmineo lo acchiappa per il collo e lo nasconde sotto l’ampia tonaca; poi, come nulla fosse, continua normalmente nella processione. Il chierichetto, complice del fatto, cantando così avverte il prete:
TIRA JU’ LA COTTA, UN DOMMINI’
SE VETE LA COSSA E UN ZAMPINU,
PER CRISTU DOMMINI NOSTRU…
Pronta la risposta del prete:
FASCISTI VENE CHIRICU CHE M’AVVERTISTI,
SE NO’ ME VIDIONO QUILLI MULI N’FUTTINGULI…
Tornato in chiesa per la funzione, lo consegna prontamente alla perpetua, degustando nel pensiero la ricca scorpacciata del pranzo. La funzione religiosa riprende normalmente, quando dalla porta della sagrestia si affaccia la perpetua, con il tacchino spennato in mano, a cenni fa capire al prete che aspetta istruzioni su come cucinarlo. Il prete alzando gli occhi al cielo, con le mani giunte in segno di preghiera, sicuro di non essere compreso dai fedeli, canta ad alta voce:
MENZU IN UMMITU E MENZU ARROSTU
PER CRISTU DOMMINI NOSTRU…
La storiella del Cristo e della grandine. Durante la processione per le rogazioni, a un pover’uomo che portava a spalle un pesante Cristo di legno, in prossimità della sua vigna distrutta dalla grandine, si impigliò la corona di spine della statua sui rami di un albero. Sforzandosi e spingendo con tutte le sue forze, non riusciva ad avanzare di un passo. Dopo molti tentativi, tutti falliti, con rabbia così si rivolse al grande cristo in legno:
MA CHE TE NE VIRGUGNI, NON CE VOLI VINI’
A VEDE’ LI DANNI CHE M’HAI FATTU?
La «Madonnuccia vella». Sita lungo la strada che da La Bianca conduce a Santa Maria, l’edicola fu teatro nei primi anni del XX secolo di un tragico fatto di sangue.
La giovane e bella Agnese Dell’Amico, donna di servizio di una piccola famiglia di possidenti terrieri di Campello, per non aver ceduto alle ripetute e pesanti avances del padrone, fu cacciata con l’infamante accusa di aver rubato biancheria dagli armadi della ricca dimora. Il padre di Agnese, Domenico Dell’Amico detto Venenzia, di nascita carrarese, anarchico e scalpellino di professione, per cavare l’onta dell’offesa e della vergogna decise di dare una sonora lezione all’autore delle pesanti molestie. Domenico, conoscendo le abitudini e il tragitto che quotidianamente il signore copriva con il calesse, lo attese nascosto dietro la «Madonnuccia». Quando il malcapitato si trovò all’altezza dell’edicola, gli si parò davanti Venenzia, con un cappellaccio calato sugli occhi e coperto da una lunga mantella nera, che una volta bloccati i cavalli cominciò a menare fendenti con un coltello. Quella sera sfortunata il padrone era accompagnato dal sindaco del paese ed entrambi ricevettero un bel numero di coltellate, per fortuna non mortali. I due si salvarono, portando sul corpo per tutta la vita i segni della lama affilata di un coltello, meno dolorosi purtroppo dei segni dell’arroganza e della prevaricazione dei potenti sui deboli.
«Il miracolo» della Madonna della Bianca. La santa immagine venerata all’interno del santuario rinascimentale della Bianca, in origine era ubicata all’interno di una nicchia di una pintura di strada in località la Macchia di Campello.
L’immagine della Madonna con il Bambino, in atto di pia adorazione, risale ai primi anni del XVI secolo, forse il 1514, e fu dipinta da un modesto pittore di scuola locale.
In origine era riconosciuta con il titolo di Madonna del Soccorso, con il tempo mutò il nome in Madonna della Bianca dovuto sicuramente al candito colorito del volto della Vergine.
La tradizione popolare ci ha trasmesso una curiosa leggenda sul trasferimento della sacra immagine dal luogo originario alla chiesa appena costruita.
Narrano i vecchi che l’immagine della Madonna era stata dipinta sulla parete esterna di un vecchio fabbricato fatiscente, in un luogo disabitato, lungo il sentiero che dall’antico castello di Campello scendeva verso la pianura, in località la Macchia, zona popolata da un gran bosco di ombrose quercie.
Ebbene, vista la crescente devozione popolare, dovuta alle grazie e ai favori che la Santa Vergine elargiva ai numerosi devoti, la comunità di Campello decise di erigere una piccola cappella, a protezione della sacra immagine.
Costruita la cappella e trasferito l’affresco al di sopra del piccolo altare, nottetempo la Madonna, non contenta della nuova collocazione, ritornava «misteriosamente» sul modesto sito per cui era stata concepita originariamente.
Il fatto prodigioso, salutato al tempo come un vero e proprio «miracolo», si ripeté decine di volte, fino a quando la caparbietà della sacra immagine vinse questo stressante «andirivieni» e piegò i massari e il Gonfaloniere di Campello a mettere mano alla borsa e costruire finalmente una grande chiesa, degna di accogliere la Madre di Dio.
La comunità di Campello con delibera del 1516 e approvazione ecclesiastica del vescovo di Spoleto, inizia la costruzione del grande santuario, affidando i lavori di costruzione a maestranze lombarde e chiamando a decorare il tempio i più illustri artisti del tempo.
Da allora, la santa immagine della Madonna della Bianca è rimasta tranquilla al suo posto.
Nei primi anni del XX secolo, durante i lavori per il rifacimento del pavimento della chiesa, al di sotto dell’altare maggiore, gli operai con grande stupore scoprirono i resti delle fondazioni della prima chiesetta, quella che la nostra «Signora» della Bianca aveva sdegnosamente rifiutato, come dimora per i secoli a venire.
Oggi la fede popolare non costruisce più le edicole sacre, quelle rimaste rischiano di scomparire per sempre, portando con sé le speranze e le storie di chi ci ha preceduto.